Business Model Canvas e innovazione: il caso Netflix

Avete mai utilizzato il Business Model Canvas? Lo strumento che consente di mappare, analizzare e progettare nuovi modelli di business? Ne avevo già parlato tempo fa (qui il post).
Si tratta di un modello ideato da Alexander Osterwalder nel 2004 e pubblicato nel 2010 nel libro Business Model Generation che ha rivoluzionato il modo di rappresentare i business model.

Cos’è il Business Model Canvas

E’ uno strumento strategico – ne abbiamo già presi in esame altri – utile a sviluppare nuovi modelli di business o a perfezionare quelli esistenti.

Il Business Model Canvas si presenta sotto forma di schema grafico ed è un tool ideale per mappare qualsiasi progetto di business. Ciò che si ottiene è una rappresentazione chiara e schematica delle soluzioni organizzative e strategiche che permettono all’azienda di creare, distribuire e acquisire valore.

E’ un template che offre la possibilità di comprendere elementi complessi del funzionamento di un’intera azienda in modo semplice ed intuitivo attraverso una sola immagine.

I 9 componenti del Business Model Canvas

Secondo Osterwalder il modello di business di ogni azienda può essere descritto tramite l’utilizzo di 9 blocchi:

  • Segmenti di clientela (Customer segments)
    Tutte le persone o le organizzazioni per cui l’azienda crea valore, siano essi utenti o clienti paganti
  • Proposta di valore (Value proposition)
    È l’insieme di prodotti e servizi che crea valore per i clienti, la risposta alla domanda “perché i tuoi clienti dovrebbero scegliere la tua soluzione?”
  • Canali (Channels)
    Sono tutti i punti di contatto tra l’azienda e i suoi clienti
  • Relazioni con la clientela (Customers relationship)
    Sono le modalità attraverso cui l’impresa acquisisce clienti, li fidelizza e fa crescere le vendite
  • Flussi di ricavi (Revenue stream)
    Descrive in che modo e con quale pricing il tuo business model genera valore vendendo prodotti o servizi ai vari segmenti di clientela
  • Risorse chiave (Key resources)
    Sono gli asset strategici di cui un’azienda deve disporre per sostenere il proprio modello di business
  • Attività chiave (Key activities)
    Descrivono le attività che l’azienda deve fare per creare e sostenere la value proposition
  • Partner chiave (Key partnership)
    I fornitori e i partner necessari per far funzionare e fare leva sul tuo business model
  • Struttura dei costi (Cost structure)
    Definisce i costi che l’azienda deve sostenere per far funzionare il proprio modello di business

Scarica il Business Model Canvas

Il Business Model Canvas in azione: Netflix

Per farvi vedere come funziona ho preso un esempio.
Ma che c’entra Il Business Model Canvas con Netflix? C’entra c’entra.

Facciamo una prova dal vivo: proviamo a ricostruire la storia di Netflix usando questo strumento.

La storia di Netflix

La storia di Netflix parte nel 1997.
Era una piccola azienda di noleggio DVD che ha scelto di distribuire i video tramite posta.
Il catalogo dei film era online, il cliente faceva la selezione e nel giro di 2-3 giorni riceveva i DVD per posta (fisica, non elettronica).

La prima innovazione che ha portato è stata quindi nel canale: ai tempi se volevi noleggiare un DVD dovevi fisicamente recarti nello store (Blockbuster).

La seconda innovazione – molto più interessante per l’utente finale – è stata fatta sulla revenue stream: a differenza dei competitor Netflix non faceva pagare il singolo noleggio bensì ha deciso di testare un abbonamento mensile a 9,99$ che consentiva di prendere DVD a volontà.

Nel 1999 si presentava così ai clienti: “no due dates, no late fees, unlimited rentals” (è il primo pay off di Netflix).

Questo cambiamento ha prodotto in realtà un altro valore per gli utenti finali: evitare di pagare multe per le restituzioni in ritardo. La leggenda vuole che lo stesso Reed Hastings abbia pagato una late fee di 40$ una volta e da quel momento abbia deciso di risolvere il problema… fondando un’azienda. Chissà se è vero!

Gli anni passano, anche Netflix viene colpita dalla bolla speculativa nel 2000 trovandosi a dover mandare a casa due terzi dei dipendenti ma già nel 2002 il numero di abbonamenti torna a crescere significativamente e la società diventa pubblica.

Nel 2004 BlockBuster si accorge che c’è un competitor sul mercato e a quel punto copia l’idea dell’abbonamento abbassandone il prezzo (a 8,99$) ma dimentica di fare leva a sua volta sul canale più importante che ha a disposizione: i negozi di prossimità.
Questi ultimi avrebbero consentito di spedire i DVD con tempi di consegna inferiori ma il colosso dell’home video non sceglie questa strada.
Decide tardi di eliminare le late fees e perde un bel pezzo delle sue fonti di ricavo.
Nonostante questo nel 2007 BlockBuster cresceva ancora erodendo quote di Netflix e un nuovo competitor si affacciava sul mercato: Walmart.

Walmart adotta un’altra strategia ancora: noleggia i video a prezzi bassissimi pur di attirare gente nei propri store. E’ il cosiddetto low leader pricing model. Le revenue da DVD verranno compensate da altri tipi di acquisti.

Ed è sempre nel 2007 che Netflix va in streaming e diventa da lineare a on demand TV. Ancora una volta è un pioniere di Internet e innova sul canale per consentire una fruizione immediata in tempo reale. Altra value proposition per il cliente!
L’infrastruttura tecnologica delle rete non è del tutto pronta ma Hastings e soci scommettono su di essa.
L’investimento tecnologico è ingente così come quello in data analytics: nasce l’algoritmo di raccomandazione che consente ai fruitori di trovare contenuti di loro gradimento.

C’è un altro valore che viene creato per il cliente: le serie tv sono rilasciate in una botta sola, intere, così il fruitore non deve aspettare settimane per scoprire come evolve la storia… benvenuti nell’era del binge watching! E nessuno osi dire che non è valore questo…

Ma questo non basta. Netflix sa che la vera battaglia sulle piattaforme si gioca a livello dei contenuti e che la sua crescita non tarderà a “infastidire” le grosse case di produzione e a far crescere il costo delle licenze. Per questo motivo innova ancora questa volta nelle attività chiave cominciando a produrre contenuti per conto proprio.
E’ il 2013 quando Netflix lancia House of Cards.
E investe tanto in questo stream: parliamo di produzioni localizzate, sempre più di qualità e sempre più frequenti (dichiara di voler lanciare un nuovo film a settimana).

I dati aiutano in questo: Netflix ha moltissime informazioni su ciò che piace alla gente e li usa in maniera intensiva per prendere decisioni sui contenuti da produrre e per confrontare le visualizzazioni di contenuto con il costo dei progetti. E’ una tech company che lavora nel mercato dell’entertainment.

Come previsto le altre grandi case di produzione – Disney e HBO in primis – decidono di lanciare i loro contenuti su piattaforme proprietarie togliendole da Netflix.
E un altro competitor – in maniera simile a quanto successo con Walmart nel 2007 – si fa avanti: è Amazon Prime che punta nuovamente sul loss leader principle per attrarre i clienti con prezzi bassissimi. Del resto Bezos non è interessato a fare i soldi con i contenuti video ma a trattenere i clienti nella sottoscrizione Prime (con cui acquistano un tot di altre cose).

Ce la farà Netflix a trovare un altro punto di svolta, un’ennesima innovazione? Oggi sono molti ad avere dei dubbi a riguardo.


Staremo a vedere come cambierà di nuovo il suo Business Model Canvas; certamente ha tutte le capacità per provarci. Non a caso è entrata negli annali della borsa con il suo ritorno sul mercato del 10.000% dal 2007 al 2018.
Avete letto bene 10.000%.
Se avessimo investito anche solo 100$ …

Impact Map: utilizzi pratici

Slide di esempio sul funnel di vendita

Non torno a raccontarvi la teoria dell’Impact Mapping, quella l’abbiamo ampiamente approfondita in questo post.
Abbiamo anche parlato di come organizzare praticamente una sessione.
Adesso voglio concentrarmi su cosa succede una volta che la vostra Impact Map è bella e pronta. Dopo tanto lavoro vediamo come metterla a frutto.
Vi do qualche spunto ma sono certa che vi verranno in mente molti altri utilizzi pratici.

Questo è ciò che abbiamo fatto nel mio team.
Non volevamo renderlo un semplice esercizio di stile, volevamo testare il tool sul campo e vedere fino a che punto saremmo riusciti a renderlo un reale strumento di condivisione.
Per questo abbiamo iniziato a presentare l’Impact Map nei contesti più disparati e a comunicarla ai vari livelli dell’organizzazione.

Epiche nel backlog

Gli impatti – o meglio le diverse combinazioni attori / impatti – sono stati inseriti come epiche nel Product Backlog.
In alternativa potreste utilizzarli come temi, che sarebbe un’impostazione ancora più corretta dal momento che i temi hanno carattere più generale e non si esauriscono.
In questo modo abbiamo inquadrato ogni item del backlog in una visione più generale. Questo ci ha consentito di dare maggiore contesto ad ogni attività e far crescere questo tipo di consapevolezza anche nel team.

Valore atteso in demo

Abbiamo introdotto dei riferimenti agli impatti nelle slide delle demo.
Ogni incremento di prodotto o A/B test veniva presentato esplicitando l’ipotesi sottostante: l’impatto che pensavamo di ottenere attraverso l’introduzione di quella specifica feature con tanto di metriche (=KPI).
In questo modo intendevamo trasmettere al pubblico della demo le finalità che guidavano le singole attività di sviluppo. Indirettamente stavamo comunicando anche il  framework di lavoro.

Priorità di lavorazione

Questo è stato un utilizzo molto concreto. Nel nostro team mancava il ruolo dello UX designer.  Abbiamo dovuto condividere questa risorsa con altri team. Coordinarsi in questa situazione non è né facile né ottimale.
La condivisione dell’Impact Map con le persone che collaboravano al progetto (ux research, designer, data analyst, altri team, ecc.) ci ha aiutato a rendere chiare le ragioni delle priorità di lavorazione.
Lo sviluppo è diventato più fluido e le dipendenze che inizialmente creavano ritardi sono diventate molto meno frequenti.

Allineamento con gli stakeholder

Tra tutti questo è forse l’utilizzo che ho trovato più vantaggioso in assoluto.
In questo caso l’Impact Map è stata un prezioso strumento di allineamento nella gestione delle aspettative degli stakeholder e nella raccolta dei feedback da parte del senior management.
L’accento sugli attori e sugli impatti ci ha consentito di mantenere la conversazione ad un livello strategico, di mantenerci aperti ad esplorare varie opportunità ed evitare cadute quali richieste di specifiche funzionalità.

Corrispondenze con il funnel

Infine – dato che il nostro progetto era focalizzato nello specifico sull’incremento dei volumi di vendita di una determinata tipologia di prodotti (quella che nelle immagini è indicata con XXX per riservatezza) – abbiamo trovato un’interessante corrispondenza tra gli impatti definiti per le due tipologie di clienti principali e i vari step del funnel di vendita o del cosidetto “funnel dei pirati” se utilizzate un approccio vicino al Growth Hacking.
E’ quello che vedete nell’immagine principale del post.

Questo è tutto da parte mia.
Se avete voglia di condividere qualche altro utilizzo pratico che avete in mente o che avete sperimentato sono tutta orecchie.
Alla prossima!

 

Come organizzare una sessione di Impact Mapping

Esempio di Impact Map

Oggi voglio raccontarvi di un argomento che mi sta particolarmente a cuore. Lo so, ho già scritto diversi post a riguardo ma in questo caso parliamo proprio di pratica: come si organizza operativamente una sessione di Impact Mapping.

Sto gestendo un progetto di crescita. E’ molto interessante ed allo stesso tempo anche complesso. Ho dalla mia due grandi vantaggi: il fatto di lavorare con focus esclusivo su questo obiettivo di business e un team con ottima seniority per poter fare end-2-end sulla nostra piattaforma.

Per me è stata l’occasione giusta per rispolverare questo strumento che amo molto e non impiego mai abbastanza.
Quando ho messo a fuoco che era il tool giusto per orientarmi nel mio progetto e ho cominciato a cercare istruzioni dettagliate su come gestire una sessione di Impact Mapping ho trovato in rete poche risorse concrete (questa è comunque la migliore base di partenza).
Da qui l’idea di condividere la mia esperienza.

L’occorrente

Se anche voi volete organizzarne una sessione di Impact Mapping avete bisogno di:

  • una sala riunioni
  • un tempo dedicato (considerate mezza giornata per partire)
  • tavoli ampi (su cui elaborare l’artefatto)
  • i partecipanti (ne parliamo più avanti)
  • un facilitatore
  • il libro o il sito di Adzic e mappe d’esempio
  • materiale di supporto (fogli A1, post-it, pennarelli, ecc.)

Una parentesi d’obbligo sul giusto mindset, ovvero la predisposizione ad accogliere inizialmente tutte le idee come si fa nei brainstorming. Fa parte del processo partire da una fase di pensiero divergente per poi convergere successivamente sulle priorità. Quindi nessuna idea è sbagliata!

Setting della sessione

Il setting iniziale prevede 4 momenti:

  • spiegazione dello strumento
  • condivisione di mappe d’esempio
  • chiarimento delle regole del gioco
  • condivisione dell’obiettivo

E’ fondamentale introdurre lo strumento a tutti partecipanti.
In particolare vi invito a soffermarvi sugli impatti. Sono il cuore della mappa e spesso la parte più fraintesa da chi non ha già esperienza del tool.
Gli impatti vengono confusi con i deliverables mentre è importante chiarire che si tratta comportamenti; i comportamenti che vogliamo cambiare negli attori per raggiungere il nostro obiettivo.
I deliverables invece sono solo ipotesi: funzionalità che pensiamo possano produrre un impatto. Congetture da testare sul campo.

E’ utilissimo mostrare delle mappe d’esempio prima di cimentarsi a creare la propria. Quelle riportate nel libro di Gojko Adzic o sul sito vanno benissimo.

A chiusura dell’introduzione chiarite due “regole del gioco” fondamentali:

  1. la finalità non è implementare l’intera mappa ma cercare il percorso più veloce per raggiungere l’obiettivo
  2. il focus principale è la creazione di valore, non la delivery di funzionalità (= output). I deliverable hanno senso se e solo se producono un impatto. Se non lo fanno sono solo waste.

L’obiettivo

Un paragrafo a parte merita l’obiettivo.
E’ fondamentale che non ci siano ambiguità sull’obiettivo che state perseguendo.
Deve essere chiaro, condiviso da tutti i partecipanti e SMART (Specifico, Misurabile, Achievable ovvero raggiungibile, Rilevante e definito nel Tempo).

Se avete la sensazione che non sia così rimandate la sessione e chiarite prima questo punto.
L’obiettivo è il cuore dei vostri ragionamenti. Evitate di lavorare su qualcosa che si rivela poi essere sbagliato. Succede più frequentemente di quanto non immaginiate.
Idealmente dovreste arrivare alla sessione di Impact Mapping avendo esplicitato tutti i trade-off sottostanti all’obiettivo. Due domande possono venirvi in aiuto: Cosa siete disposti a mettere sul piatto per poterlo raggiungere? A quali condizioni rimane valido?

I partecipanti

Qui è importante la varietà di punti di vista.
Questo strumento fa leva sulla cosidetta “wisdom of crowd”, la saggezza della folla. E’ un tool collaborativo. Ecco perché è importante avere i vari interlocutori al tavolo: sales, prodotto, tecnologia, data analytics, ecc.
Maggiore è la varietà dei punti di vista e più articolata risulterà la mappa a livello di attori e impatti.

Se pensate che i partecipanti siano troppi (diciamo più di 8/10) ha senso suddividersi in più gruppi e lavorare separatamente. Il setting iniziale sarà comune, poi i partecipanti si divideranno per lavorare sulla mappa. L’importante è far fare allineamenti frequenti sui vari passaggi e prevedere una condivisione finale.

Una menzione speciale merita il facilitatore. Vi sconsiglio di avventurarvi in una sessione di Impact Mapping senza avere qualcuno che possa agevolare gli scambi durante il meeting, tenere i tempi e riportare la conversazione sui binari corretti quando necessario.
Pensare di prendere attivamente parte ai lavori e facilitare allo stesso tempo è  illusorio. Chi presidia il processo dovrebbe fare solo questa attività (e non è poco!).

La durata

Quanto tempo serve? Questa è una delle domande più frequenti…
In letteratura trovate indicazioni per una sessione di una giornata o mezza giornata.
Per l’esperienza che abbiamo avuto noi è veramente difficile superare lo scoglio delle 3 ore.
L’attenzione subisce un drastico calo e anche la qualità della produzione diminuisce vertiginosamente.

Questa è una proposta di agenda:

  • 30 minuti per introdurre l’Impact Map
  • 15-30 minuti per condividere l’obiettivo (a patto che abbiate fatto prima i compiti a casa)
  • 90-120 minuti per una prima bozza
  • 15 minuti di riepilogo

Il mio consiglio – nel caso di una mappa particolarmente ampia – è di suddividere il lavoro in più sessioni. Magari in un primo momento potete definire gli attori, individuare uno/due degli attori principali e concentrarvi sugli impatti che volete ottenere da questi soggetti.
Non abbiate timore di lasciare indietro qualcosa. Se iniziate a utilizzare l’Impact Map come strumento operativo pianificherete di certo più di una sessione nel corso del vostro progetto.

Pillole sul campo

Aggiungo qualche suggerimento distillato dalle lezioni sul campo.

Mappa di prova

Se è la prima volta che fate una sessione di questo tipo potrebbe esservi d’aiuto fare prima una mappa di prova per conto vostro, per capire gli attori che non possono mancare e supportare le giuste conversazioni al momento. Non deve emergere la “vostra” mappa; ciò che verrà fuori dalla sessione sarà di norma un quadro molto più ricco di quello che avete ipotizzato. Consideratela una sorta di traccia. Può essere di grande utilità se vedete che la conversazione si arena o se non ci si smuove da un singolo attore.

Impatti, impatti, impatti

Il cuore della mappa sono gli impatti. E’ li che dovete concentrarvi maggiormente. Definire come volete cambiare il comportamento degli attori. Se mettete a fuoco questo componente correttamente tutto sarà più facile.
Vi accorgerete di aver fatto un buon lavoro perché i comportamenti non cambieranno più di tanto nel tempo, mentre i deliverable sì (subiranno la prova dei fatti).

Livello di dettaglio

Questo è un altro punto che suscita molti dubbi. Quanto dev’essere dettagliata la mappa?
In realtà è un non problema.
La risposta giusta è: quanto basta per partire, per mettervi in condizione di validare le prime ipotesi con il team.
La mappa cambia nel tempo. Si adatta sulla base dei feedback che arrivano: i dati quantitativi, gli insight qualitativi. Capirete strada facendo il livello di dettaglio che vi serve in una determinata fase di progetto.

Nel nostro caso ad esempio siamo partiti definendo degli attori molto “macro”: gli utenti che ricercano voli e i clienti che hanno già acquistato un volo.
Adesso sentiamo la necessità di introdurre un nuovo livello di dettaglio utilizzando le personas… e – lo sappiamo già – potrebbe non essere anche questa la versione definitiva.

Non abbiate timore di sperimentare versioni diverse e ripensarla da capo.
E’ un lavoro mai finito.
Fate queste domande al team:

  • per com’è adesso la mappa vi è utile nella vostra attività quotidiana?
  • vi supporta o è d’ostacolo nel prendere decisioni operative?

Sulla base del feedback saprete se c’è bisogno di riorientare il tutto.
E’ una mappa in fondo. L’importante è che vi guidi a destinazione.